Alessandro Sipolo

Immagini di  Andrea Zampatti

Una libertà senza compromessi 

È un poeta della vita, Alessandro, sempre in bilico tra la dicotomia del personale e del sociale, un cantastorie folk che con le sue note racconta l’amore e la società sotto una luce profondamente personale e con tematiche sociali molto sviluppate. La sua musica ha qualcosa da dire e la dice nella sua forma poetica spontanea e allo stesso tempo accuratamente meditata, le sue canzoni non sono per masticatori di musica usa e getta, non sono per chi cerca soltanto una facile melodia da fischiettare, nonostante la potenza di alcuni brani permetta persino questo

Alessandro dopo gli studi hai fatto un lungo viaggio in Sud America, come mai questa scelta e cosa ti ha dato questa esperienza?

Fin dall’adolescenza sono stato attratto dal Sudamerica per diverse ragioni. La mia prima tesi, in Scienze Politiche, riguardava il governo Allende e così ho pensato di partire – subito dopo – per il Cile. Alla fine ho preferito restare, sia perché volevo completare il percorso con la laurea specialistica, sia perché non mi andava di andare in Sudamerica da turista o da mantenuto. Appena finita l’Università ho trovato l’opportunità che cercavo: il Servizio Civile Internazionale, che mi consentiva di svolgere un lavoro interessante, in Perù, con un salario più che dignitoso. È stato un anno straordinario. Mi ha dato tanto. Difficile riassumere in poche parole. In estrema sintesi direi che ha confermato buona parte delle idee che già avevo, radicalizzandole notevolmente.

Quando hai deciso di fare musica seriamente?

Non so se ho mai iniziato a far musica seriamente. Diciamo che ho cominciato a intenderlo anche come un lavoro a partire dalla pubblicazione del primo disco, nel gennaio 2013.

E peraltro la tua musica in quale genere possiamo classificarla?

Non amo troppo le classificazioni. Se proprio dovessi, mi definirei un cantastorie folk.

Il tuo primo album “Eppur bisogna andare” è stato prodotto da Giorgio Cordini, storico chitarrista di Fabrizio De André. Penso sia stata una bella soddisfazione per te, cosa pensi abbia apprezzato particolarmente?

L’incontro con Giorgio è stato fortuito e fortunato. Ero appena tornato dal Perù, anno 2012. Allora vivevamo nello stesso paese, Provaglio d’Iseo. Dopo una chiacchierata, m’è capitato di fargli sentire una canzone inedita, registrata malamente. A lui è piaciuta molto e abbiamo iniziato a collaborare. Mi ha sempre detto di apprezzare di me in particolare due cose: il timbro vocale e il modo di “presentare” i brani. Da lui ho imparato tanto. Gli sono molto grato.

Il tuo secondo album: “Eresie” è rientrato invece tra i 50 finalisti per la Targa Tenco 2016, categoria “miglior disco assoluto”, di cosa parla?

I brani dell’album giocano con i vari significati del termine “eresia”, a partire dalla sua etimologia. Il tema del disco è la disobbedienza. 

I tuoi testi vogliono essere quindi dei messaggi ricchi di significato e di valori. Una volta forse si sarebbe detto “canzone politica”, esiste ancora?

Beh, sicuramente molte mie canzoni affrontano temi che hanno anche risvolti politici. Del resto tutto è potenzialmente “politico”. 

Tutto riguarda la polis. Anche la celebrazione della leggerezza e della dimensione privata, ad esempio, oggi molto in voga, ha un significato profondamente politico, no? 

Come mi è già capitato di dire in altre occasioni, io non mi ritengo più o meno “impegnato” di altri. Semplicemente parlo delle cose che mi interessano. Se uno ha un’intera discografia dedicata all’amore, non è meno impegnato di me. Semplicemente ha altri interessi, altre priorità.

E il pubblico come risponde a questo stimolo artistico?

Direi che è una questione di punti di vista. Rispetto ai numeri del grande circuito pop, io sono un microbo. Però posso comunque dire di avere un pubblico attento e appassionato, che segue sempre con grande calore ciò che faccio. Dunque mi ritengo fortunato.

So che tu vai spesso anche in Francia a cantare e suonare. È diverso l’approccio del pubblico francese?

Non amo molto le generalizzazioni, ancor meno se hanno a che fare con le nazionalità… Non credo esista un “pubblico francese”, così come non credo esista un “pubblico italiano”. 

Dunque direi… Dipende. Dipende dai luoghi in cui ci si trova a suonare. Alcuni molto adeguati all’ascolto. Altri per nulla. Eppure anche suonare in qualche bettola, francese o italiana che sia, può portare notevoli soddisfazioni. 

Quel che mi sento di dire è che la Francia ha investito e investe maggiormente nel mondo della cultura e dello spettacolo. Il sistema dell’intermittenza francese ne è una lampante dimostrazione. Si ha la sensazione che le istituzioni prestino più attenzione ai lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo rispetto a quanto accade in Italia.

Come avviene per te il matrimonio tra testo e musica?

Senza una regola precisa. All’inizio partivo sempre da un testo. Ora molto più frequentemente da una melodia.

Il brano “Le mani sulla città” affronta il tema della presenza ‘ndranghetista nel nord Italia. Come è nata questa idea?

Durante l’Università ho avuto la fortuna di frequentare il corso di Sociologia della criminalità organizzata, tenuto dal Professor Dalla Chiesa. Successivamente sono diventato cultore della materia e ho partecipato a diverse iniziative promosse e sviluppate dal Professore con studenti ed ex studenti. Ho quindi avuto modo di studiare la colonizzazione mafiosa del nord, in particolare ad opera della ‘ndrangheta. Ad un certo punto ho sentito l’esigenza di scrivere una canzone che mi desse la possibilità di toccare questo tema anche durante i concerti.

La canzone “Cresceremo anche noi” ti ha portato anche su Rai 1. Il tuo amico Nicola Bianco Speroni l’ha definita “una bellissima canzone in un certo senso romantica”.

Grazie. È una sorta di lettera rivolta al genere femminile. Che però riflette sul genere maschile. Non volevo scrivere qualcosa che si occupasse solo degli abusi più visibili, quali i femminicidi o la violenza fisica. Volevo ragionare soprattutto sulle loro premesse: disuguaglianze, imposizioni e stereotipi di genere. Quando mi sono presentato a Musicultura, nel 2017, dovevo presentare tre brani, mai avrei pensato che scegliessero questo: lo ritenevo decisamente troppo “pesante”. E invece è piaciuto molto sia alla commissione che al pubblico. Così siamo arrivati fino in fondo, alla serata in diretta su Rai 1.

Il tuo ultimo album “Un altro equilibrio” porta sulla copertina una vecchia foto di tuo padre che fa la verticale, peraltro con l’abito della domenica. Come mai hai scelto questa foto?

È una foto che amo tantissimo. Innanzitutto per ragioni estetiche: la trovo francamente stupenda e poi perché richiama molti aspetti che accomunano me e mio padre. L’ho trovata perfetta per la copertina di un album che racconta esistenze in bilico ed equilibri fragili.

Questa pandemia è stata veramente pesante sotto tutti i punti di vista. Artisticamente tu come l’hai affrontata?

Inizialmente l’ho semplicemente subita. Poi ho provato a cogliere alcune opportunità che offriva. Chiaro, il mio punto di vista è quello di un privilegiato: non mi sono ammalato, non ho subito lutti dovuti al covid, non ho attraversato particolari difficoltà economiche (grazie all’altro lavoro che svolgo). L’angoscia e l’incertezza generale mi hanno certamente toccato e si sono di fatto tradotte nell’incapacità di comporre cose nuove. Questa “sospensione” della vita sociale toglie il terreno sotto i piedi e impedisce ogni progettualità. Almeno così è stato per me. Però, personalmente, mi ha anche dato la possibilità di fare spazio e sondare le possibilità del vuoto. Venivo da cinque anni frenetici, sotto tutti i punti di vista. La clausura ha inevitabilmente svuotato la mia agenda. Ho ricominciato ad avere tempo. Ho letto e ho ascoltato molto. Ho scritto e cantato pochissimo. In sostanza, mi sono riappacificato con il mio silenzio. 

Tu sei impegnato anche in altri tipi di progetti significativi sul nostro territorio come “Umanità Migrante”.  

Sì, continuo a lavorare come coordinatore, nell’ambito del Sistema di Accoglienza e Integrazione e mi occupo anche di eventi e interventi di informazione e sensibilizzazione. Umanità Migrante è una rassegna alla quale sono molto legato. E’ nata per parlare di migrazioni attraverso arti e linguaggi differenti ed è stata sviluppata in collaborazione con numerose realtà associative e cooperative del territorio bresciano. Prima della pandemia si svolgeva con cadenza mensile nello splendido Teatro San Carlino di Brescia. Ora siamo ovviamente costretti alla modalità on line. E non vediamo l’ora di tornare ai nostri appuntamenti in presenza.

Se fossi il Sindaco di Brescia cosa sogneresti per la nostra città rispetto ai temi dei quali ti occupi e anche alla cultura musicale?

Hahahah. Beh se io fossi il Sindaco… Significherebbe che la nostra amata città avrebbe compiuto una notevole svolta a sinistra, quindi avrei davvero molte cose da proporre… A parte gli scherzi, un sindaco, nella vita reale, fa i conti con una coperta sempre corta. Una volta assolte le necessità impellenti, resta poco margine. Detto questo, siccome non voglio sottrarmi alla domanda, rispondo con due cose molto concrete. La prima: il totale superamento dei “campi rom”, inaccettabili esempi di segregazione ghettizzante, attraverso un piano decennale di transizione abitativa, in accordo e collaborazione con le ormai poche famiglie presenti. È un discorso molto scivoloso e complesso, lo so. Ma parlo con cognizione di causa perché, nel mio piccolo, ho approfondito a lungo questo tema. E gli esempi dai quali attingere ci sono. La seconda: uno spazio pubblico, magari in una zona periferica e socialmente “difficile”, aperto alle forme d’espressione più svariate. Una “Casa delle arti”. Un posto dove poter provare, sperimentare, incontrarsi, suonare, danzare, esporre, dibattere, magari anche risiedere il tempo necessario per portare a compimento un progetto. Pensiamo a quale enorme impatto potrebbe avere su un quartiere problematico. A quanti processi virtuosi potrebbe innescare. A quanta “sicurezza” porterebbe in certe strade. Molta più, io credo, di quanto possa fare un drone o una telecamera. Molto è stato fatto, in questa città, e molto bene, per la conservazione e la valorizzazione del patrimonio artistico. Forse il tassello mancante è l’investimento pubblico sulla creatività. Per guardare anche al patrimonio culturale che ancora non c’è, o che fatica ad emergere anche per mancanza di mezzi.

Se invece avessi la bacchetta magica cosa sogni per il tuo futuro di musicista e di uomo?

Sogno di poter vivere occupandomi sempre e soltanto di ciò che mi interessa. Nulla di più. 

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