Lorenzo Mattotti. Storie, ritmi, movimenti Brescia, Museo di Santa Giulia 14 settembre 2023 – 28 gennaio 2024

Stefano Karadjov,
Direttore Fondazione Brescia Musei
“Una mostra che vuole essere prima di tutto una grande retrospettiva di un artista contemporaneo che si inserisce pienamente nel programma di valorizzazione del nostro patrimonio a cura della Fondazione Brescia Musei. Abbiamo scelto di presentare Lorenzo Mattotti attraverso il linguaggio di tre forme espressive e performative dell’arte contemporanea quali la musica, la danza e il cinema capaci di raccontare in modo comprensivo, con oltre 250 opere, il percorso cinquantennale di questo grande Maestro. Si tratta di capolavori che hanno una loro unicità all’interno di un percorso che sarà di certo ancora molto lungo, ma che già ora può essere storicizzato dal nostro museo”.
Melania Gazzotti, Curatrice
“Si tratta di un’occasione per ripercorrere la bellissima carriera di Lorenzo Mattotti e farlo da un punto di vista unico. Un’ampia retrospettiva per apprezzare il suo grande apporto nelle tre arti che più lo hanno influenzato: la musica, la danza e il cinema. In questa mostra ci sono tantissimi schizzi, illustrazioni, i lavori a pastello per cui è conosciuto e amatissimo, ma anche dei grandi pannelli fra cui il trittico creato apposta per quest’occasione. La sfida più grande è stata riuscire a rappresentare le emozioni attraverso linee e colori; far uscire l’illustrazione dall’angolo in cui è sempre stata relegata. Credo che l’interiorità e la poesia di Mattotti abbiano saputo veicolare in maniera esemplare la sua energia, le emozioni e i sentimenti”.
Intervista a Lorenzo Mattotti
Una retrospettiva che comprende oltre duecentocinquanta opere selezionate tra innumerevoli altre. Quale l’idea alla base di questo percorso?
Queste mostre sono importanti non tanto per sacralizzare le mie opere, ma al contrario per aprire le porte al grande pubblico. Il mio lavoro è abbastanza popolare, si basa sul fumetto, sull’illustrazione che una volta era considerata sottocultura, e penso che aprire le porte di questi “santuari della cultura del nostro passato” permetta di far comprendere ai giovani che si possono fare molte cose belle, scoprire le diversità senza paura. Io vengo dal mondo dell’underground, dai festival rock, ero un ragazzo di provincia con l’entusiasmo di imparare e il disegno è diventato un filtro, uno strumento per sentirmi parte di qualcosa di più grande, per crearmi una mia cultura e scoprire le cose, il passato, i grandi Maestri. Questo mi ha aiutato a crescere, la voglia di approfondire sempre di più e cercare di far le cose bene, sempre con un rapporto abbastanza ingenuo e nello stesso tempo disincantato. Se c’era una cosa bella in Giotto o Piero della Francesca io me la prendevo senza avere timore di toccarla: la bellezza del fumetto era anche che nessuno lo controllava, non era giudicato come l’arte e quindi ognuno era libero di fare come voleva. Quel periodo, anni ’70 e ’80, ci ha dato una libertà straordinaria di creare e inventare un linguaggio aperto a tutte le contaminazioni.
Che ruolo ha l’immaginazione nel processo creativo?
Oggi crediamo in un mondo fatto di immagini, siamo completamente bombardati dalle immagini, tuttavia se andiamo a scavare un pò si tratta di un immaginario estremamente piatto, unificato. Le persone hanno paura di “essere diverse”, di avere un immaginario personale e discostarsi da ciò che piace agli altri, di essere voci singole e differenziate. In Italia abbiamo una cultura incredibile, viviamo in una miniera di immaginario straordinario e quello che mi angoscia è vedere dei paraocchi ovunque, dei muri innalzati per proteggerci da ciò che non conosciamo. Io ho sempre cercato di distruggere i confini, allontanare qualunque pregiudizio; quando facevo il fumettaro mi dicevano che non ero un fumettista ma un pittore, quando dipingevo sostenevano che non fossi un pittore. Io ho sempre risposto che sono un autore di immagini, non ci sono confini e questa mostra permette di vederlo; mi sento libero di fare dei grandi dipinti, disegnare dei fumetti oppure il manifesto del Festival di Venezia, o ancora fare la copertina del New Yorker, lavorare con Lou Reed e poi illustrare Hansel e Gretel per l’Opera di Parigi. La bellezza meravigliosa di questo lavoro è di non chiudersi mai in un angolino di specializzazione; io mi sento continuamente un dilettante! Scherza. La mia creatività e l’immaginazione sono messe al servizio di manifesti, rassegne, giornali, un lavoro giorno per giorno fatto segno dopo segno, esplorando questo mondo incredibile.
La tua ispirazione è sempre a ritmo di musica…
La musica ha sempre contraddistinto in qualche modo i miei lavori, il ricordo di momenti vissuti con gli amici a preparare il palcoscenico e sistemare gli strumenti, l’eccitazione del concerto. Unito a questo, i miei primi esperimenti con il colore, per utilizzarlo in maniera espressiva, la ricerca del linguaggio del fumetto attraverso l’uso di onomatopee e dialoghi per rappresentare le storie tra i personaggi, ma anche il suono degli strumenti musicali. In questo senso credo che il filo rosso che attraversa la mostra, sia il mio tentativo continuo e disperato di dare forma al suono, dare forma alla musica. Come si rappresenta la musica? Alcuni critici sostengono che le mie storie abbiano una struttura più musicale che letteraria o razionale e lo stesso vale per i miei colori che sono quasi più degli strumenti sonori che non delle entità fisiche. Credo ci sia un fondamento in questo perché la musica mi ha proprio impregnato “visivamente” e spesso mi trovo a pensare al ritmo di certe mie storie, proprio come se fossero dei flussi o delle metamorfosi che il suono ha, che fa parte del suono stesso.
La mostra si apre con le illustrazioni raccolte nel libro di Lou Reed “The Raven”. Come nasce la collaborazione con questo grande artista internazionale?
Ricordo che mi contattò e fu una chiamata abbastanza divertente nella quale mi disse di non essere uno specialista letterario di Allan Poe, ma di aver preso le immagini e i testi e averli interpretati alla sua maniera. Aggiunse: “tu prendi la musica, prendi l’atmosfera che io ho messo nel disco e reinterpretala a tuo modo”.
Sin dall’inizio mi sono sentito estremamente libero di creare. Presi disegni e immagini che avevo precedentemente esplorato nei miei quaderni e che – forse – senza quest’opportunità, non avrei mai nemmeno pubblicato. Erano talmente forti e dure, ma accanto a Edgar Allan Poe da una parte e la musica di Lou dall’altra, decisi di tirare fuori questi mostri, questa parte oscura del mio lavoro. Una bella esperienza lavorare con questa personalità, un grande poeta contemporaneo, nevrotico e allo stesso tempo dolcissimo, sempre molto inquieto. È stato un enorme privilegio per me lavorare con Mr Lou Reed.

Un’avventura diversa il tuo lavoro per l’Opera di Parigi, grandi tavole a china disegnate per la messa in scena dell’Hänsel e Gretel di Engelbert Humperdinck…
Il libro era già stato pubblicato ed era diventato un caso nell’editoria per bambini; illustrare la paura con immagini oscure e molto inquietanti non era certo usuale. È stato molto importante anche per me poter creare queste immagini, sebbene fosse il risultato di un grande lavoro di ricerca condotto nei due anni precedenti sulle foreste nere di cui avevo già creato parecchie immagini, più che altro astratte. Quando il New Yorker mi chiese di reinterpretare Hansel e Gretel decisi che non avrei fatto una classica illustrazione per bambini e quindi pensai: perché non utilizzare queste foreste oscure e aggiungerci i personaggi? E subito queste immagini vennero fuori ricordandomi la paura che mi faceva Hansel e Gretel quando ero bambino; era una delle storie che più mi avevano terrorizzato da piccolo. Era come se queste immagini esistessero già, sono state create nel giro di tre o quattro giorni. Mi staccai dal colore per lavorare sul bianco e nero. Il nero come mistero, come qualcosa di non detto, come spazio che dà la possibilità di immaginare ognuno i propri mostri, come un bambino nella sua stanza da letto al buio, appena spenta luce, sotto le coperte, che comincia a sentire rumori e vedere delle ombre sulle pareti. L’immaginazione dà una forma a tutte le paure. Hansel e Gretel è poi diventato uno spettacolo che andrà in tournée in Francia, prodotto dall’Opera di Digione; andrò in tournée con due pianisti e un’attrice e disegnerò in scena come già accaduto con la Filarmonica di Parigi.
Arte contemporanea e danza. Come interpreti il dinamismo di questo linguaggio?
La danza è pensata come espressione del corpo, io ho sempre pensato alla danza come libera, spontanea, dove si riescono a rompere certe paure e limiti. La danza come momento di estasi, come rituale, un momento di unione con la natura, per sentirsi parte della natura quando il corpo esprime delle emozioni interiori. Non sono mai stato un danzatore di tango o di liscio, piuttosto mi ha sempre affascinato l’espressione del corpo con movimenti anche assurdi, come la danza contemporanea ci ha insegnato. Spesso la danza aiuta ad esprimere energia, gioia della vita, interpretare quello che c’è di bello nel nostro mondo, il dinamismo. Ho fatto numerosi manifesti per celebrare Torino, Venezia, la Festa della Musica e della Danza a Brescia, in Francia, in Brasile e via dicendo.
Una sezione corposa dedicata al cinema dove non poteva mancare Venezia…
Ho fatto la sigla della Mostra del Cinema di Venezia con gli stessi professionisti che hanno collaborato con me nel lungometraggio “La famosa invasione degli orsi in Sicilia” per poterla realizzare velocemente. La musica è di René Aubry. Si tratta di una collaborazione molto lunga con Venezia e ogni anno è un pò una scommessa trovare un’idea nuova. Quest’anno in particolare ricorreva l’anniversario degli ottant’anni della Mostra del Cinema e così volevamo trovare un’immagine forte, potente, che rappresentasse fedelmente lo spirito del Festival. Per quest’edizione abbiamo deciso di fare un’automobile che percorre la strada del futuro, un’idea che è venuta fuori dopo tanti tentativi di altri soggetti. Eravamo in un vicolo cieco finché ho tirato fuori una serie di disegni fatti in maniera totalmente libera, pensando appunto alla macchina che se ne va in un paesaggio visionario. Visto che si parlava del futuro del cinema, quale immagine migliore? La proposta è piaciuta e così ho rielaborato il disegno apposta per questa ricorrenza del Festival. Questo è un esempio per dire che ogni tanto, nei momenti più fortunati, il lavoro libero che faccio sui miei quaderni, vede la luce per lavori ufficiali e commissionati.
Immaginario e paura. Che forma ha la paura nel cortometraggio che hai illustrato?
Sempre nelle illustrazioni per il cinema, spinto dai produttori che poi saranno gli stessi dell’invasione degli orsi in Sicilia, sono stato invitato a creare una storia sulla paura dell’oscurità con l’obbligo di fare anche il regista. Per la prima volta ho preso il coraggio, in qualche modo obbligato, di fare la regia della mia storia. Un’avventura che racconta dell’immaginario di un bambino – che ero io – e delle sue paure legate alla casa di campagna dei nonni vicino a Mantova, nella Pianura Padana. Parliamo di una leggenda, un’ipotetica storia legata a un coccodrillo imbalsamato che si trova nella Basilica delle Grazie, sulle rive del lago di Mantova, una Chiesa piena di ex voto, dove si trova un coccodrillo impagliato. Ricordo che da piccoli, con gli amici, immaginavamo tante storie, leggende per lo più legate a questo coccodrillo che mangiava i bambini e che è stato una miniera di invenzioni. Non si tratta di una storia per bambini, ho utilizzato liberamente delle sequenze in bianco e nero, per rappresentare una storia dalle atmosfere molto buzzatiane. Oggi la gente teme di mostrare le proprie insicurezze, ci si vergogna di aver paura, delle proprie debolezze, bisogna sempre dimostrarsi estremamente sicuri per essere accettati.
“La famosa invasione degli orsi in Sicilia”. Cosa significa fare un grande film di animazione, rendere una storia per bambini epica e aperta a tutti, interpretabile su più livelli?
Dopo le mie prime esperienze mi ero erroneamente illuso che sarei stato capace di fare un lungometraggio e invece è stata tutt’altra avventura. Sorride. Per “La famosa invasione degli orsi in Sicilia” ho descritto personaggi e paesaggi, creato disegni a colori e in bianco e nero, centinaia e centinaia di disegni di preparazione per dare l’idea di quello che volevo diventasse il film. Sono tutte immagini che non hanno l’ambizione di essere illustrazioni, di essere disegni finiti, sono tutte pronte per essere completamente reinterpretate. Non ero legato a un dettaglio o un altro, ma queste erano le basi per sviluppare con la mia équipe le vere immagini del film, ho fatto delle prove di storyboard, lo studio dei personaggi e delle scenografie. Un’avventura durata sei anni con molti alti e molti bassi, momenti di perdita e altri di ritrovamento. Una grandissima collaborazione collettiva che ha visto, nei momenti di massima produzione più di 150 persone tra scenografi, disegnatori, animatori, addetti alle ombre, in un’équipe di altissimo livello. Alla fine penso che il risultato parli da sé. Si tratta di un lavoro lentissimo e metodico, tutte le persone che ci hanno lavorato sono dei “maniaci ossessivi”, meravigliosi naturalmente, ma ossessionati da ogni dettaglio. Tutto dev’essere inventato, costruito e disegnato altrimenti non esiste! Questa è un’altra grande magia del fare un film di animazione.
Libertà, movimento, ritmo, ricerca dell’originalità per non appiattirsi e omologarsi; cosa significa essere unici oggi?
Seguire i propri sentieri personali per riuscire ad essere in stretto rapporto con le proprie esperienze; il disegno dev’essere una testimonianza di quest’esperienza unica per ognuno di noi. Se fosse sempre così si raggiungerebbe l’unicità per distaccarsi da ciò che già esiste. Oggi la società ti obbliga ad essere come gli altri, non ti permette di essere diverso, singolo e unico. Comprendere ciò che fa di te unico, indagare le proprie emozioni ed esprimerle senza paura attraverso il disegno dev’essere un’esperienza completamente personale e incondizionata. Essere continuamente concentrati su ciò che vogliono gli altri, magari per farsi accettare, spesso ci fa dimenticare chi siamo veramente… anche perché non è sempre così piacevole esplorare se stessi! È importante capire chi siamo per evitare di ricalcare stereotipi, dedicarci alla ricerca della nostra visione personale.
Quali i sentimenti rappresentati nelle sue opere?
Sono vari, io ho fatto anche molte storie a fumetti nelle quali i personaggi passano attraverso tante fasi: la paura, la perdita, la confusione, la follia, l’amore, l’intimità. Si possono rappresentare diversi sentimenti attraverso il disegno e io credo di averne toccati abbastanza e anche contraddittori: l’intimità, i gesti dell’amore, la paura, la follia, la pace interiore…
Giovani… illustratori, disegnatori, sognatori del mondo. Un consiglio per loro?
I giovani devono guadagnare un altro senso del tempo, non devono farsi prendere dalla fretta, ma devono trovare del tempo per approfondire se stessi, per costruire se stessi senza la paura di non esistere. Mi rendo conto che sia molto difficile per i ragazzi, però credo che solo così potranno trovare il modo di costruire la loro personalità. Ci vuole tempo!
Esiste un ambito ancora inesplorato nella sua lunga carriera?
Spesso ti chiedono di realizzare lavori a cui non avevi pensato prima, che ti aprono a nuove idee. Una cosa che non ho mai fatto è lavorare nel teatro, creare scenografie per il teatro e chissà, è un campo che potrei esplorare… Sorride.