“Dobbiamo cambiare passo rispetto ad una vita troppo frenetica e tornare ad una lentezza costruttiva fatta di pazienza e umiltà”
Esistono diversi modi di essere donna, di sentirsi una donna. Credo sia la grazia a fare la vera differenza, quella sorta di “non so che” che potremmo definire “allure”, un’aura di fascino ed eleganza innata. Non è semplice da trovare eppure oggi era lì, a fianco al camino, tra i fiori di un giardino sotto una timida pioggia primaverile… abbiamo incontrato Michela Rizzi. Un sorriso che non si fa desiderare, grandi occhi celesti e la compostezza formale di chi potrebbe essere un’ingegnere, ma forse anche un’artista. Si racconta nel suo modo di essere donna, imprenditrice e madre. Un lavoro interessante fatto di sacrifici, costanza e tenacia ma anche di passione e appagamento personale. Condividere le proprie esperienze è il modo migliore per crescere sia come figli che come genitori, per insegnare ai ragazzi l’importanza di valori quali la pazienza, l’impegno e l’umiltà per raggiungere qualsiasi sfida la vita ci proponga. Il segreto? Cambiare passo e tornare ad una lentezza costruttiva.

Michela, ingegnere – o ingegnera – come hai scelto il tuo indirizzo di studi?
La scelta della Facoltà di Ingegneria è stata quasi scontata per me che vengo da una famiglia che ha sempre lavorato nell’ambito delle costruzioni; è un argomento che mi appartiene, sono cresciuta in questo mondo. Già all’inizio del liceo avevo preso la mia decisione, la ritenevo una Facoltà in grado di aprirmi diversi sbocchi per la sua versatilità in tutti i settori lavorativi. Mi sono laureata in ingegneria gestionale a pieni voti, avevo ventiquattro anni, e poco dopo mi hanno offerto un impiego nella Fabbrica d’armi Beretta; un’esperienza di tre a fianco del Direttore Generale per lo Sviluppo dei piani strategici prima e poi nell’ambito dei fucili di lusso. Successivamente ho iniziato a lavorare presso l’azienda di famiglia CMM s.r.l. che si occupa prevalentemente della realizzazione di strutture in acciaio.
Come hai vissuto “l’essere donna” in una Facoltà prevalentemente maschile, hai incontrato degli ostacoli?
Certamente le donne erano di gran lunga meno numerose dei colleghi uomini, specie ai tempi, parliamo di vent’anni fa, tuttavia mi sono sempre trovata bene; ho costruito un bel gruppo di lavoro, una decina di ragazzi, con cui studiavo e frequentavo – anche perché ingegneria richiede la presenza e la costanza quotidiana. Quando mi sono iscritta a ingegneria gestionale era a numero chiuso, c’erano solo 100 posti disponibili, secondo me saremo state circa 20, 25 ragazze e ci siamo rapportate in modo molto diretto tra studenti, quindi ho potuto costruire amicizie che si sono consolidate nel tempo e, in alcuni casi, sono nati anche rapporti lavorativi.
E dal punto di vista lavorativo?
Direi che nei ruoli rivestiti finora non ho mai sentito la differenza dell’essere donna.
Anzi, è importante sottolineare che non ho incontrato particolari ostacoli, né tantomeno delle agevolazioni come alcune volte potrebbe passare: “dal momento che sei una donna hai la strada spianata”. Non funziona nemmeno l’aspetto inverso!
Di cosa si occupa la CMM s.r.l.?
In generale operiamo in ambito infrastrutturale, civile e industriale, negli impianti idroelettrici e strutture in acciaio dal 1979. Negli ultimi vent’anni ci siamo specializzati in particolar modo nella realizzazione di ponti, viadotti e dispositivi antisismici.
Qual è il tuo ruolo in azienda?
Io seguo la parte commerciale di alcune importanti commesse e sono il Project Manager dei vari cantieri che seguiamo.
Questo significa, oltre alla parte contrattuale e di rapporti col cliente, seguire tutte le fasi realizzative del lavoro: dal coordinamento della progettazione fino alla produzione e ai montaggi delle parti di cantiere. Seguo praticamente tutta la filiera dall’inizio alla fine del progetto.
Com’è andare, e in qualche modo vivere, il cantiere?
Il cantiere è sempre faticoso anche fisicamente e, in genere, richiede degli spostamenti in trasferta. Ritengo tuttavia che recarsi “sul posto” ti consenta una visione reale di ciò che accade, ti dia la percezione chiara di quello che sta avvenendo. Confrontarsi con la realtà ti fa crescere anche tecnicamente perché hai l’opportunità di toccare con mano la differenza tra progettazione e parte organizzativa vera e propria. Il cantiere è fondamentale in tal senso! Quando arrivi bisogna sporcarsi – non arrivi con i tacchi a spillo? Scherzo – scarpe antinfortunistiche e abbigliamento adeguato. Poi naturalmente è molto importante sapersi relazionare con la committenza; non soltanto con i dirigenti, ma anche con la parte operativa, avere sempre un atteggiamento propositivo e collaborativo. Puoi fare davvero la differenza nell’affidabilità, nella competenza e acquisire una certa credibilità con i tuoi interlocutori.
Qual è stato il tuo primo lavoro e come ti sei sentita?
Il primo lavoro che ho seguito è stato il ponte sul canale Camozzoni, a Verona. É un ricordo emozionante, c’è sempre grande tensione perché si tratta di movimentazioni molto importanti. In quei momenti ti rendi conto che c’è in gioco tanto, sia dal punto di vista dell’incolumità delle persone che ci lavorano, sia dell’importanza del lavoro che stai portando a conclusione in termini di sicurezza e affidabilità. Sono momenti davvero adrenalinici!
Hai partecipato alla realizzazione del nuovo viadotto autostradale San Giorgio a Genova, un’opera enorme sia in termini di dimensioni che di significato. Quali gli aspetti più interessanti di questa avventura?
Innanzitutto il committente era Fincantieri e la nostra azienda si è occupata dell’impalcato metallico e, nello specifico, dei montaggi. In cantiere sono arrivati i componenti trasportabili che successivamente sono stati assemblati, saldati e posizionati in quota.
Di che dimensioni parliamo? Si tratta di un viadotto di circa 30 metri di altezza e 1.182 metri di lunghezza con campate da 50 a 100 metri. Ogni volta che una campata era pronta – per campata si intende la parte che va da appoggio ad appoggio – veniva posizionata in quota, varata, tramite delle gru molto grandi. Pezzo per pezzo abbiamo costruito tutto il viadotto.
Quanto è durato il lavoro? É iniziato a settembre e abbiamo chiuso l’impalcato a fine aprile, quindi circa 6, 7 mesi di lavoro. Vi hanno lavorato circa 100 persone dei nostri che si occupavano di tutta la parte metallica, delle saldature e dei controlli; poi ovviamente c’erano le opere civili realizzate da Webuild che è l’altro importante General Contractor socio di Fincantieri.
Quali le difficoltà di questo lavoro?
Per me è stata un’esperienza sicuramente incredibile e molto faticosa sotto molti punti di vista, partendo proprio dall’impatto emotivo che Genova mi ha trasmesso all’arrivo; riesci a percepire la dimensione dell’enorme tragedia avvenuta. Dopodiché le difficoltà sono state pratiche; un crono-programma stringente, le complicazioni tecniche, una pressione importante. Abbiamo lavorato giorno e notte, sabato, domenica e festivi, sempre: noi e tutte le maestranze presenti. Si è creata una squadra che non ha mai vacillato e questo ha fatto davvero la differenza.
A tutto ciò si è aggiunto il Covid 19, una fase delicata di grandi incertezze ma, alla fine, abbiamo deciso di continuare a lavorare, stretti da procedure molto severe di controllo, con tutti i presidi possibili. Non abbiamo avuto nessun malato.
Emotivamente come l’hai vissuta?
Sia io che la mia famiglia siamo sempre stati lì, uniti, per condividere le difficoltà e le paure delle persone lontane dalle loro famiglie. E così, seppure nell’enorme difficoltà, siamo arrivati con l’obiettivo di chiudere il ponte ad aprile ed è stata una grandissima soddisfazione. Penso che, in qualche modo, il ponte San Giorgio a Genova sia un simbolo, un monito di quello che l’Italia sa fare; la dimostrazione delle risorse infinite che abbiamo e sappiamo mettere in atto al bisogno. Spesso il nostro Paese viene sottovalutato, tuttavia io credo che ci siano molte persone tenaci, che lavorano e ci credono, non sono delle mosche bianche, l’Italia è così. Partecipare a quest’esperienza è stato molto importante ed emozionante perché non è più il lavoro fine a se stesso, ma entri nell’ambito di valori e ideali più grandi di te.
Sulla scorta di ciò che è successo a Genova, si sente spesso parlare di sicurezza delle infrastrutture in Italia. Qual è la situazione in generale?
Sono numerose le opere e le infrastrutture nuove che devono essere realizzate e i finanziamenti per portare a termine questi progetti e, allo stesso tempo, ce ne sono altre che necessitano di essere riqualificate attraverso dei piani manutentivi. Da una parte abbiamo dunque nuove infrastrutture necessarie; ad esempio si sta dando una continuità all’alta velocità Brescia – Verona, poi sarà la volta di Verona – Padova e via dicendo. Per contro ci sono infrastrutture, come sulla Cisa per citarne alcune, che necessitano di continui consolidamenti e manutenzioni. Sono due filoni che corrono paralleli, importanti in egual misura perché lo sviluppo infrastrutturale è il motore dell’economia di una nazione e quindi dev’esserci, ma non dobbiamo scordare che abbiamo un patrimonio un po’ vetusto da riqualificare per essere mantenuto e messo in sicurezza.
L’Italia è nota per il suo patrimonio artistico anche in termini di ponti storici, avete partecipato a qualche riqualificazione interessante?
Nella mia esperienza abbiamo partecipato al ripristino di alcuni ponti ferroviari molto belli e storici; ne ricordo uno in particolare per la sua bellezza… si trattava di un arco tralicciato che si ergeva sopra ad una vallata, quindi ad un’altezza considerevole, e non fu rifatto ma bensì riqualificato perché parte del patrimonio storico del nostro bel Paese.
In tema di sicurezza, cosa ci racconti dei dispositivi antisismici che oggi vengono utilizzati anche per le opere d’arte, penso ad esempio al basamento della nostra Vittoria Alata recentemente restaurata…
Oltre alla realizzazione di strutture in acciaio ci occupiamo anche dei dispositivi antisismici che consentono alle strutture di dilatarsi e recepire le azioni sismiche; questi vengono utilizzati sia per i ponti che per gli edifici. Inoltre ci sono anche dei dispositivi che, una volta messo in sicurezza l’involucro, ovvero l’edificio, proteggono tutto ciò che vi è all’interno; in alcuni casi è più importante il patrimonio che sta dentro rispetto al mondo esterno.
Questi sono temi sicuramente interessanti su cui lavorare e ragionare.
Il tuo team di lavoro è giovane?
L’esperienza si mescola alle nuove idee! Ci sono molti giovani ingegneri che lavorano in azienda da noi, ragazzi fra i trenta e i quarant’anni, qualificati e disponibili che sentono l’azienda come fosse loro e vi si dedicano con impegno e serietà. Naturalmente c’è anche chi è più grande e porta la propria esperienza a supporto del lavoro di tutti. Unendo le proprie competenze con uno spirito propositivo è possibile fare la differenza e realizzare progetti importanti.
Le tue passioni, se non fossi un’ingegnera?
Sorride. Sarei stata di certo molto più artistica perché penso di essere più artista che ingegnere…
Donne imprenditrici e famiglia. Come concili il tuo lavoro con gli innumerevoli impegni familiari?
Sicuramente non è semplice. Spesso sono in trasferta per essere fisicamente presente sui cantieri, incontrare la committenza e coordinare i gruppi di lavoro. Detto questo, penso che il segreto consista nel rendere il proprio tempo produttivo; organizzarsi prima affinché ogni cosa abbia il suo spazio. Perché no? Questo è un esempio anche per i nostri figli che imparano sul campo cosa significa affrontare dei sacrifici, lavorare per raggiungere i propri obiettivi, senza trascurare l’importanza dei valori che sono alla base del nostro modo di essere. Per quanto mi riguarda la finalità del mio lavoro non è soltanto quella economica, ma prevalgono ragioni ben più profonde come la soddisfazione e la gratificazione personale nel raggiungere un traguardo, con competenza, con passione e, perché no, apprezzamento da parte degli altri. Non ultima la famiglia e i figli che hanno bisogno di ricevere esempi concreti e reali da parte dei propri genitori ed educatori.
Rendi partecipi le tue figlie del tuo lavoro?
Certo! Le porto anche in cantiere perché possano rendersi conto della realtà delle cose… È corretto coinvolgere i giovani, dare loro concretezza mostrando che esistono le difficoltà, ma attraverso un percorso – che non è mai facile – è possibile raggiungere le proprie soddisfazioni personali. Specialmente in un ambito come il mio, in cui il lavoro è molto tangibile, riesci a vedere ciò che crei, quindi non è solo una parte teorica da immaginare. Un aspetto fondamentale riguarda la capacità di rapportarsi agli altri, che sono diversi da te, ma con i quali devi comunque fare squadra, conciliare idee, caratteri e umori.
Tutto e subito non funziona?
Penso proprio di no. Sorride. Serve pazienza, non dobbiamo essere travolti dal volere tutto e subito, ma dobbiamo trovare la forza di aspettare e costruire veramente, non fisicamente intendo, qualunque cosa, bisogna dedicarci del tempo anche per pensare. Dobbiamo cambiare il passo di questa vita frenetica, senza imporre ritmi impossibili anche ai nostri ragazzi. Sembra di guadagnare del tempo, ma è solo apparenza perché la velocità non ti permette di sedimentare e costruire basi solide. Dev’essere il ritorno ad una lentezza costruttiva, questo mi piacerebbe trasmettere alle mie figlie. Tutto richiede tempo, impegno e umiltà, caratteristiche che oggi ci stanno un po’ sfuggendo.
Articolo di Paola Rivetta