
Ipocrisia. Uno fra i sostantivi che ritrovo spesso nei miei pensieri, un omaggio che il vizio rende alla virtù come disse La Rochefoucauld. Aprile senza dubbio è stato il mese che più di ogni altro ha reso omaggio a questa vile parola oggi più che mai incalzante e guizzante in quella nutrita interpretazione emotiva che il mio emisfero destro sta ancora digerendo, ma si sa le vacanze pasquali rappresentano un po’ per tutti un circolo vizioso, non solo a tavola. Perché possiate al meglio comprendere il mio disincanto vorrei sottoporvi quella cronologia sentimentale che ha abbracciato tutti noi italiani durante questi ultimi dimenticabili dodici mesi:
9 marzo 2020 #iorestoacasa: l’Italia entra in lockdown
13 marzo 2020 flash-mob casalinghi sui balconi: l’Italia canta stringendo fra le mani la bandiera della speranza
18 marzo 2020: la triste colonna dei mezzi militari attraversa Bergamo
Aprile 2020: gli hashtag della pandemia #andràtuttobene
Maggio invece è stato il mese che più di ogni altro si è dipinto di speranza, di responsabilità, di diligenza, tra misure di prevenzione e gel igienizzanti distribuiti a iosa…
Mesi che hanno scalfito nel cuore degli italiani un reale senso di appartenenza e di fiducia, reazioni che seppur per un battito d’ali, ci hanno illuso di una fratellanza collettiva mai provata prima, ritrovando nel vicino di casa che sino a pochi mesi prima avevamo “pugnalato” a suon di carognate, il nostro miglior amico di sempre. Teatrino affabile, piacevole e per certi versi esasperato da TEMPORALI incandescenze bonarie ma pur sempre caro e benvoluto. Nell’aria si stava via via diffondendo un olezzo di denso di altruismo, di amorevolezza e di umanità, una verve “filantropica” che avrebbe gettato le basi per un mondo nuovo, più buono, più sano. Erano i mesi consacrati al bene di ogni individuo, al “nutrimento” seppur motivazionale di ogni nostra attività, così come del made in Italy, una profonda e complice persuasione sociale per rendere, una volta per tutte, alto il valore della nostra Italia ma soprattutto delle sue genti. Abbiamo esaltato con piccoli e grandi passi il concetto di patria e il relativo potenziamento delle risorse interne partendo da quelle più piccole quelle più vicine a noi, un’operazione di soccorso autogestito, quasi casalingo per caldeggiare la ripresa della nostra economia. Una jam session per saperci uniti e per sfamare i nostri commercianti. Una contingenza a cui ho fortemente creduto e per cui mi sono ampiamente battuta in prima persona ma che come un Domino ha fatto pian piano cadere tutte quelle illusioni dalle mie più profonde certezze.
É passato un anno e le recenti sommosse del 6 aprile hanno sicuramente degradato quel senso civico nel quale, solo per un attimo, mi ero rifugiata.
Ed ecco che, nonostante azioni “poco disciplinate”, anche l’hashtag #celafaremo si è tinto di ridicolo e oggi conserva un sapore piuttosto acido alla mercé di un goliardico humor politico che si legge solo sulle più amate meme dei social.
E noi? E di noi cosa ne è stato?
Di noi, di quelli che fino all’altro ieri ci eravamo stretti in un “abbraccio” per difendere il filato italiano e la cipolla rossa di Tropea?
Di noi, quelli delle vacanze di prossimità e della piccola bottega di fiducia?
Di noi, i convintoni #iorestoacasa, ridotti alla cassa integrazione e acerrimi patrocinatori del reddito di cittadinanza, ristori e chi più ne ha (e per fortuna sua ne ha avuto) ne metta, ma poi nella migliore delle ipotesi, tracotanti in salotti “illeciti” a sciabolare bottigliette di francese memoria? Di noi che abbiamo difeso la nostra Italia ma che oggi per un pugno di giorni a Fuerteventura e Dubai abbiamo smarrito anche la nostra incorruttibile integrità morale, dinnanzi a un Kir Royal e una colata di bagliori?
Un bagliore, proprio come fu quel credo che circa un anno fa mi tenne compagnia.
Siamo mascherati, proprio in tutti i sensi.
“Il fine è solo l’utile, il mezzo ogni possibile”